Sui social ho mostrato qualche foto della tavola e del cibo del Thanksgiving a posteriori ma non ho raccontato praticamente nulla e non ho fatto Instagram Stories sul momento. Questo per non invadere gli spazi delle persone che mi ospitavano (non tutti amano mettere la loro vita online) e anche per godermi la serata offline. Ma sono passate settimane e ora voglio dirvi tutto.
Quando ho ricevuto l’invito per il Thanksgiving
Partiamo dall’inizio. Ero in aeroporto pronta a partire per Boston e ho ricevuto inaspettatamente quell’invito a cena. Solo pochi giorni prima mi ero resa conto che sarei arrivata in Usa proprio in quella giornata e, informandomi con un mio amico americano, ho avuto la certezza che avrei trovato supermercati e la maggior parte dei ristoranti chiusi. Giustamente. Ho scoperto però che esistono dei siti con elenchi di locali, cafè e ristoranti aperti durante le festività, con anche indicati eventuali menù speciali per quelle occasioni.
Insomma, in qualche modo avrei mangiato. Si, ero preoccupata di questo. Se avete volato qualche volta su tratte internazionali e se non viaggiate in business sapete che il cibo a bordo non è esattamente una di quelle esperienze indimenticabili che rendono il percorso di valore tanto quanto il traguardo (la destinazione che ci aspetta).
Io solitamente per andare in Usa o comunque verso ovest (è successo in occasione del viaggio in Messico, di quello in Costa Rica e degli altri a Boston) faccio scalo in Europa per effettuare il controllo documenti in maniera più rapida. Ogni volta lo scalo è in una città diversa e ormai so dove mangiare qualcosa di buono prima di trovarmi 8-10 ore su un volo con scarse possibilità di mettere sotto i denti del vero cibo.
Ricordo con piacere in tal senso l’aeroporto di Francoforte e quello di Madrid, ma anche Parigi e Londra. Questa volta però lo scalo era veramente breve e sapevo si poter comprare solo qualcosa di pronto e mangiarlo in aereo. E così è stato: un panino con poca mozzarella e qualche fetta di pomodoro, neanche scaldato.
Capite perché temevo di non riuscire a mangiare per tutto il giorno, una volta arrivata a Boston? Unito a questo c’è il fatto che in uno dei vari cassetti di casa custodivo gelosamente il sogno di trascorrere una festività come il Thanksgiving o il 4 luglio con una famiglia americana per festeggiare secondo le loro tradizioni e abitudini.
Io non tendo ad accumulare all’infinito i sogni negli armadi, amo tenere le ante aperte per poter guardare dentro ogni volta che ci passo davanti e tirarne fuori uno per provare a realizzarlo. Ma questo sogno in particolare non è qualcosa realizzabile con impegno, duro lavoro e sforzi.
Sicuramente esiste qualche tour operator o app di viaggio che propone esperienze con i local ma è ben diverso dal ricevere un invito spontaneo e sentito a condividere una giornata come il Thanksgiving.
Per farla breve, in silenzio e nel mio cuore io speravo tanto di ricevere quell’invito che poi è arrivato proprio da quella famiglia americana che conosco e che già a settembre 2018 mi aveva invitata per una cena a base di astici sul loro portico (esperienza memorabile in tutti i sensi! Magari un giorno ve la racconterò).
Quando ho letto quelle parole sul telefono ho avuto un vero e proprio balzo al cuore, i miei occhi si sono illuminati e ho iniziato a ridere. Perché fino a quel momento non avevo parlato ad alta voce di quel sogno e di quella speranza, neanche ci avevo pensato razionalmente. Eppure stava succedendo davvero.
Come potete immaginare durante tutto il volo ho avuto il sorriso stampato in faccia; per la gioia e per l’emozione non sono riuscita a chiudere occhio, tanto che quando sono arrivata a toccare finalmente un letto e a prendere sonno erano passate oltre 24 ore dalla mia partenza da Milano.
Ma cos’è davvero il Thanksgiving? Perché gli americani lo festeggiano? Cosa mangiano e come lo trascorrono? A queste domande risponderò a breve ma prima ditemi, cosa sapete voi in merito? Intendo dire a parte il fatto del tacchino. Io conoscevo poco altro e limitatamente ai fatti storici, molto meno sulle tradizioni. Ma ora rimediamo subito, così se in futuro vi capiterà un invito come il mio sarete preparati all’esperienza.
Thanksgiving: cosa e perché si festeggia
Il Thanksgiving Day (o Giorno del Ringraziamento) è una festa celebrata negli Stati Uniti il quarto giovedì di novembre, che quest’anno cadeva il 28. La prima volta che è stato festeggiato risale al 1621, quando nella città di Plymouth in Massachusetts i padri pellegrini si sono riuniti per ringraziare il Signore del buon raccolto. Nel 2020 ricorrerà l’anniversario numero 400 da quel giorno.
Perseguitati in patria per la loro adesione al Cristianesimo Calvinista, avevano lasciato l’Inghilterra per raggiungere l’America a bordo della Mayflower; arrivati nel 1621, hanno ricevuto l’aiuto dei nativi americani per coltivare vegetali e allevare animali in quella nuova terra. Il buon esito li portò l’anno successivo a celebrare il Thanksgiving in ricordo di questo invitando anche gli indigeni.
Negli anni successivi la tradizione si è estesa a tutto il Paese e nel 1789 George Washington l’ha riconosciuta come festa nazionale, portandola gradualmente a perdere la sua origine cristiana.
Qui potete leggere tutta la storia in maniera approfondita.
Come si festeggia e cosa si mangia al Thanksgiving
Oggi il Thanksgiving è festeggiato da moltissimi cittadini americani, che si riuniscono per mangiare insieme il classico tacchino secondo la propria ricetta di famiglia, accompagnato da tutta una serie di contorni vegetali e di salse. La tradizione vuole che la cena venga sempre organizzata a casa, non al ristorante, con parenti e amici.
Gli ingredienti utilizzati per l’accompagnamento sono quelli tipici della stagione autunnale come patate classiche e dolci a pasta arancione, zucca, mele, mirtilli rossi.
Ho trascorso il Thanksgiving in una cittadina fuori Boston, in Massachusetts, e non ho idea delle differenze nei menù proposti nel resto degli Stati Uniti. Ma credo si faccia sempre riferimento a prodotti di stagione e tipici a livello locale e che comunque le ricette siano soggette a interpretazioni e tradizioni di ogni famiglia.
Ecco cosa è stato servito alla tavola del mio Thanksgiving:
- tacchino cotto al forno in maniera semplice, non ripieno;
- salsa gravy fatta con il fondo di cottura della carne, ristretto a parte;
- puré di patate;
- puré di carote e altri tuberi;
- barbabietola;
- patate dolci a pasta arancione, cucinate al forno con zucchero di canna e burro;
- funghi ripieni e gratinati;
- cavolini di Bruxelles;
- verdure a foglia verde;
- un’interessante “salsa” di accompagnamento al tacchino, fatta con mirtilli rossi, arance e probabilmente zucchero;
- croissant salati vuoti, utilizzati come pane ma farciti al momento con del burro.
Per quanto riguarda i dolci:
- crostata alla zucca;
- la classica apple pie;
- una ciambella alla zucca con noci pecan;
- cheesecake ricoperta di panna e crumble di mele e noci.
Questo a partire dalle 18.30, mentre alle 17.30 c’era un aperitivo intorno al bancone della cucina con stuzzichini vari e vino bianco.
Thanksgiving: cosa mi è rimasto di questa esperienza
Nonostante la grande varietà di cibo, non ho avuto la sensazione che provo durante gli infiniti pranzi in Italia. Non c’erano mille portate ma un semplice aperitivo in piedi, poi a tavola il tacchino con tanti contorni e infine i dolci.
Già il fatto di dover servire gli antipasti, il primo (o i primi), il secondo (idem come prima), i contorni e poi il dolce in momenti separati e intervallati da pause e passeggiate per digerire porta di fatto a stare a tavola un’intera giornata.
All’americana invece, servendo una sola portata con tanti piatti tutti insieme accorcia i tempi e va anche incontro a chi magari non mangia (o non può o non vuole mangiare)tutto per ragioni religiose, culturali, etiche e di salute, non trovandosi costretto ad aspettare la portata successiva e mettendo in difficoltà chi ha cucinato ma potendo scegliere liberamente cosa mangiare e cosa no senza dover dare particolari spiegazioni.
Quando ho scritto che per il tacchino ognuno ha la sua ricetta intendevo dire che non ho percepito alcuna smania di far certificare la propria come la ricetta originale, quella corretta o semplicemente come la migliore. Non c’è competizione.
Oltre a questo, anche se i padroni della bella casa che mi ha ospitata hanno preparato il tacchino e la maggior parte delle verdure, ognuno degli altri invitati ha portato qualcosa come un dolce o altri contorni.
Sempre a proposito del cibo, posso dire che la la tavola era bellissima (come potete vedere dalle foto) nella sua semplicità. Non si tratta esattamente di una famiglia contadina, la casa è una bella e ampia villetta indipendente ma non c’era sfarzo, lusso e nulla di ostentato.
Tutto era presentato in maniera semplice, senza tirare fuori il servizio del matrimonio ancora nuovo e imballato o le posate in argento e senza che tutto fosse abbinato in maniera ossessiva ed esasperata. E nessuno probabilmente ha trascorso i giorni precedenti a mettere sottosopra casa, a sistemare da cima a fondo per poi far fare il tour agli ospiti.
Ecco, questa cosa del giro della casa a chi non l’ha mai vista non esiste. Certo, fremevo dalla curiosità di scoprire cosa c’è oltre la cucina, il salotto, il bagno e la sala da pranzo in una casa americana, ho immaginato le grandi camere da letto, i letti king size con la testata alta in legno scuro o imbottita e poi gli armadi a muro e il bagno in camera. Ma nessuno me me l’ha proposto e io non l’avrei mai chiesto.
Mi è stato confermato anche alcuni giorni dopo a Baltimora, da una donna dell’Indiana che ho conosciuto a colazione allo Sheraton e con la quale ho parlato per 2 ore senza averla mai vista prima. Gli americani sono molto easy, vivono più serenamente gli “eventi sociali” come questo, senza ansia da prestazione, senza l’idea di dover fare per forza più del necessario.
Intendiamoci, tutto era bello e curato, ma si tratta di una bellezza fatta di cose piccole e semplici, quasi casuali. Come il centrotavola che in realtà era una grande coppa in vetro con frutta di stagione. O come il cibo, impiattato in maniera funzionale, senza ghirigori, cosa che rivela la cura nella preparazione del cibo più che nel modo in cui viene presentato. Nulla di artificiosamente ricercato per stupire, insomma.
La cosa interessante è stata anche aver riunito a una tavola tante culture e storie differenti, ognuna con le proprie tradizioni (e ricette), spesso anche lontane tra loro. Ok, eravamo fondamentalmente americani e italiani ma oltre ai padroni di casa (la famiglia che mi ha invitata, composta da moglie, marito e tre figli), originari del Massachusetts, c’erano tre loro amici: una donna di New York arrivata lì per l’occasione, una donna dell’Ohio ma con origini non americane e un uomo cresciuto in Nebraska.
Quindi cosa mi rimane di quella serata? Gli occhi a cuore e un’altra esperienza bella, di quelle che ti aprono occhi e mente. Poi, dato che ho avuto di nuovo la conferma che a volte i sogni si avverano, anche quando non serve impegnarsi e puoi solo sperare in un pizzico di fortuna, ora incrocio le dita per il 4 luglio una volta nella vita. Prima o poi.