Oggi parliamo di parole coreane intraducibili; quindi se sognate la Corea del Sud o se vi appassionano le culture dell’Estremo Oriente non perdetevi questo post.
Quando ho scritto i quattro post dedicati al libro di Tiffany Watt Smith “Atlante delle Emozioni Umane” (qui potete leggere il primo) mi si è aperto un mondo su culture lontane, parole impronunciabili e non facilmente traducibili nella nostra lingua (spesso neanche in inglese) con un singolo termine, se non ricorrendo a un giro di parole o dovendo dare una definizione più articolata.
Ho notato che l’argomento interessa molto anche tanti e tante di voi e ancora oggi quei post sono tra i più letti in assoluto su StyleNotes. Per questo ho iniziato a fare un po’ di ricerca, ho letto infiniti articoli e individuato una serie di libri per approfondire e potervi proporre altri contenuti di questo genere.
Iniziamo oggi parlando di cultura coreana e di una serie di parole coreane intraducibili in italiano o in inglese ma che racchiudono significati profondi e il cuore di un Paese. Come sapete se mi seguite da un po’, qualche anno fa sono stata a Seoul a più riprese e nell’autunno 2016 ho vissuto là continuativamente per 6 settimane ma nonostante questo non ho imparato molto della lingua locale se non i basici grazie (Gamsahabnida 감사합니다) e ciao/buongiorno (Agnònghaseyo 안녕하세요) giusto per ricambiare la gentilezza delle persone coreane e non entrare e uscire da negozi e ristoranti facendo scena muta (o dicendo cose che non comprendono).
Quindi sarà (spero) interessante per voi quanto per me, che mi preparo a quando un giorno potrò tornare a Seoul e a scoprire come è cambiata nel frattempo e quanti luoghi ancora ci sono da esplorare, cibi da assaporare e cose da imparare.
4 parole coreane intraducibili ma dal significato profondo
Iniziamo il nostro viaggio nella cultura coreana attraverso XX parole o espressioni che difficilmente sono traducibili con un unico termine e in maniera semplice in italiano o in inglese. Passeremo da temi storici ad altri legati allo stile di vita. Siete pronti?
Nunchi o Noon-chi 눈치
È la combinazione delle parole “occhio” e “misura” ed è un concetto molto importante nella cultura coreana, in grado di descrivere un’intuizione su ciò che ci circonda. Questo termine descrive l’arte dell’essere in sintonia con le emozioni e i pensieri di qualcun altro, la capacità di ascoltare e valutare gli stati d’animo altrui. Qualcuno con un buon noon-chi è in grado di leggere il linguaggio del corpo e il tono di voce degli altri e capire il loro reale stato d’animo. Al contrario, chi non ha un buon noon-chi manca di capacità di osservazione.
Nella cultura occidentale si può far corrispondere all’empatia o, ancora meglio, all’intelligenza emotiva. Questo perché in Corea Nunchi non è soltanto un sostantivo ma rappresenta un vero e proprio stile di vita, tanto che la giornalista coreana Euny Hong nel 2019 ha pubblicato un libro dedicato. Si chiama “The Power of Nunchi: The Korean Secret to Happiness and Success” e individua in Nunchi da una parte una caratteristica emotiva esistente nelle persone più attente all’ascolto e più sensibili e dall’altra una tecnica relativa alla crescita personale e quindi accessibile a tutti, secondo la quale basterebbe osservare e ascoltare davvero invece di limitarsi a vedere e sentire.
Non aspettatevi un testo di filosofia orientale ma piuttosto un supporto per utilizzare il concetto di Nunchi alla vita quotidiana e moderna , una chiave per capire le dinamiche delle relazioni interpersonali secondo l’ottica coreana ma applicabile anche nel proprio contesto di vita o lavorativo.
Anshim o Ahn-sheem 안심
Un altro elemento chiave della cultura tradizionale coreana e che influenza il carattere delle persone è la distanza da ogni tipo di disordine, mentale o fisico, che deriva senza dubbio dagli ideali del Buddismo e del Confucianesimo. Questo non significa che i coreani siano immuni a qualsiasi reazione aggressiva e che siano caratterizzati da una immutabile tranquillità ma ha di certo aiutato a stabilire un fondamento filosofico e spirituale basato sulla pace interiore, detta Anshim (o Ahn-sheem 안심).
Invece di esprimersi in maniera diretta come faremmo noi occidentali, i coreani tendono a mantenere la calma e far in modo che l’altra persona recepisca il messaggio grazie a segnali non verbali; questo si collega al concetto di Nunchi che abbiamo appena visto. Infatti in Corea è comune dire che per mantenere un livello accettabile di Anshim bisogna essere dotati di Nunchi.
Ciò che si consiglia a una persona straniera che si interfaccia con persone coreane, che si tratti di lavoro o di relazioni personali, per preservarne la pace interiore e di dire chiaramente come stanno le cose, cioè che nonostante si abbia una certa familiarità con i termini e l’importanza di tale comportamento, non si possiedono le skill culturali per agire efficacemente in quel modo ma si farà il possibile.
Han 한
Si tratta di un concetto piuttosto unico e che caratterizza nello specifico la Corea. Han fa riferimento al sentimento collettivo di tristezza e oppressione legato alla storia del Paese, caratterizzata da attacchi e invasioni da parte di altri popoli nel corso del tempo. Qualcosa che permea la cultura coreana con profonda resilienza.
Han è un’emozione difficile da catturare e definire a parole ma immaginate una combinazione di tristezza, rabbia e impotenza unite a un velo di speranza in un futuro migliore. Ne abbiamo già parlato in uno dei post dedicati al libro “Atlante delle Emozioni Umane” di Tiffany Watt Smith.
Da quello che ho letto mi sembra di aver capito che l’han regoli i sentimenti e le relazioni dei coreani, che possa essere attenuato ma non cancellato perché si tratta di una generale insoddisfazione e senso di ingiustizia verso la vita. Allargandone il significato, può essere un qualcosa che sperimentano anche le nuove generazioni di chi non ha vissuto certi fatti storici ma li ha solo sentiti raccontare da genitori o nonni; nella quotidianità si può vivere un senso di oppressione, seppur su piani diversi e a diversi livelli ad esempio nell’emarginazione di minoranze, nelle difficoltà di una madre single, nel bullismo a scuola o sul lavoro quando si ha a che fare con un capo o colleghi sleali.
Jeong 정
L’ultima di questa serie di parole coreane intraducibili è Jeong. Con questa parola si fa riferimento a una forma di legame sociale complessa e che non è facile da tradurre ma se proprio volessimo potremmo utilizzare “connessione”. Si tratta di un legame emotivo e psicologico che coinvolge la collettività e che interessa più livelli: lo si prova quando ci si sente affezionati, ci si preoccupa, si comprende l’altro, si è leali e affettuosi. C’è una connessione emotiva con qualcuno o qualcosa. E la si può provare per un familiare, un amico, il partner ma anche un collega, un insegnante o uno sconosciuto, o ancora addirittura per un luogo o un oggetto.
Come molti altri concetti coreani è più facile provare il jeong che spiegarlo ma è facile vederlo con in nostri occhi in atti come la condivisione del cibo, in un genitore che strofina la mano sulla pancia del figlio per mandare via il dolore o in un’insegnante che fa un piccolo dono ai suoi studenti. Da precisare però che il jeong non siamo noi a provarlo ma è lui che ci lega a un’altra persona, a un animale, a un luogo.
Per appronfondire
Se vi interessa approfondire l’argomento, vi segnalo una breve bibliografia che mette insieme spunti generali di cultura coreana e testi specifici su singoli aspetti o su alcuni dei termini di cui abbiamo parlato.
- Euny Hong, “The Power of Nunchi: The Korean Secret to Happiness and Success” – “Il Potere del Nunchi” (non fate caso all’infelice traduzione del sottotitolo);
- Boye Lafayette De Mente, “The Korean Mind. Understanding Contemporary Korean Culture“;
- Boye Lafayette De Mente, “The Korean Way in Business“;
- Boye Lafayette De Mente, “Etiquette Guide to Korea“;
- Maurizio Riotto, “Storia della Corea“;
- Andrea De Benedittis, “Introduzione alla Cultura Coreana“;
- Jon Huer, “Psychology of Korean Han”.
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